“Non sarebbe meglio smettere di lavorare per un po’? Tanto tutto quello che guadagni se ne va tra retta del nido e tata. Praticamente non conviene”.
No, zia Giovannina, non sarebbe affatto meglio smettere di lavorare, neanche solo per i tre anni che ci vogliono per arrivare alla materna. Scommetto che, se hai almeno un figlio, questa domanda - in buona, buonissima fede - ti è stata fatta almeno una volta.
Non è (solo) una questione di principio. Uscire temporaneamente dal mercato del lavoro è una decisione antieconomica, un investimento sbagliato in partenza.
È vero, può essere frustrante vedere la maggior parte del proprio stipendio speso per far sì che qualcun altro si prenda cura dei propri figli piccoli. Con i sensi di colpa che questo comporta. Del resto, alle donne raccontano spesso che si può lasciare il lavoro per qualche anno, dedicarsi a crescere i figli e poi tornare alla professione quando saranno alla materna o alle elementari.
Ma dove sarà la tua professione fra 3 o 5 anni? Come sarà cambiato il mercato dal quale sei fuori da così tanto tempo? Come saranno cambiati gli stipendi? E soprattutto, di cosa (e di quanto) dovrai accontentarti, quando la ricerca comincerà a farsi disperata?
Un’analisi del 2016 Center for American Progress mostra che una pausa lavorativa di cinque anni per una donna che guadagna uno stipendio medio può comportare una perdita complessiva di circa 467.000 dollari nel corso della sua carriera. Questo valore comprende non solo lo stipendio perso ma anche gli avanzamenti di carriera e i contributi pensionistici che non saranno accumulati. Queste cifre non tengono conto delle potenziali opportunità di promozione e delle competenze perse, che potrebbero essere difficili da recuperare in un mercato del lavoro competitivo.
Facciamo un esempio ancora più concreto: immagina che una donna con uno stipendio medio di €30.000 lordi annui rinunci al lavoro per cinque anni. Considerando una crescita salariale media del 3% annuo, questa lavoratrice perderebbe circa €165.000 di potenziale reddito e contributi, oltre alle eventuali promozioni e contributi pensionistici.
La pensione, dicevamo. Ogni anno di interruzione equivale a contributi mancati sia personali che del datore di lavoro, con una perdita che si amplifica nel tempo.
I costi per la cura dei bambini diminuiscono di anno in anno: gli esorbitanti costi dei nidi non si devono pagare per sempre. Puoi “operare in perdita” per un po’, lo fanno persino le aziende.
Con questo numero di Incipit non intendo giudicare nessuno per le proprie scelte, perché è chiaro che il fattore economico è solo uno dei tanti che porta a una scelta di vita importante come quella di dedicarsi alla famiglia in maniera esclusiva.
Spesso, però, siamo portati a fare “matematica a breve termine” e trascuriamo gli impatti a lungo termine delle nostre azioni. Se è la convenienza economica a spingerci a stare a casa, conviene sedersi e fare bene i conti con un orizzonte temporale più ampio in mente.
Incipit della settimana
Cusk, Il lavoro di una vita, Einaudi (R)
Un libro per niente gentile nei confronti della maternità, a tratti abbastanza scioccante per la ferocia dell’autrice nei confronti della sua condizione di neo-mamma. Si parla anche di lavoro. Non lo leggete se siete mamme da meno di un anno, un anno e mezzo. Lo recuperate dopo. La recensione definitiva l’ha scritta Tegamini.
52 week challenge
Prima di andare
Tempo fa ti ho parlato della famiglia Hanouna e di come Mustafa stia cercando di far uscire dalla Palestina alcuni suoi parenti stretti. Grazie anche all’aiuto di chi legge questa newsletter, sono state raccolte circa 4,000 sterline con GoFundMe. Ne servono altre 20,000. E se è vero che non possiamo aiutare tutti, possiamo però aiutare qualcuno. Il gofundme è qui.
Un’osservazione: mi sono trovata anch’io, due volte, nella situazione di considerare un’interruzione lavorativa momentanea, sono dipendente e il contratto lo prevede, non l’ho fatto in parte per le valutazioni da te descritte e in parte, banalmente, perchè mi mancava il mio lavoro: adoro i miei bambini ma dopo qualche mese la vita di pannolini, latte e pappe può essere pesante. Risultato: la prima volta ho staccato 9 mesi l seconda 6 ma in entrambi i casi sono stata messa da parte, non mi sono stati riconosciuti gli scatti e gli avanzamenti che mi erano stati prospettati e di fatto sono stata penalizzata poiché appena andata il maternità hanno assegnato il mio ruolo ad uno de l mio team lasciando invariata la situazione al mio ritorno. In sintesi in Italia, nella maggior parte dei casi, vieni comunque penalizzata e in questa ottica secondo me andrebbe valutata la scelta.
È vero che la "matematica a breve termine” porta a sbagliare. Ovviamente ogni caso è a sé, ma la perdita diventa più grossa se si considera che non si perdono i 5 anni di stipendio "iniziale" ma quelli finali. La differenza fra 30 anni di lavoro (30.000€ più il 3% annuo) e 25 anni di lavoro è tipo di 330.000€. Anche immaginando una crescita bassa dell'1%, sono comunque quasi 200.000€. Poi certo, a questo bisogna togliere quanto si spende in tate e asili. Quanto sarà, 100.000 euro? La differenza rimane comunque 230.000€. Che ok non sono i 230.000€ di oggi, perché c'è l'inflazione, ma anche immaginandola al 2%, equivalgono a tipo 175.000€ di oggi, quasi sei interi anni anche considerando che si risparmiano soldi. Ognuno deciderà quanto impattano questi soldi sulle proprie preferenze, magari qualcuno può pensare che per l'equivalente di 6000€ l'anno valga la pena.